Machshevet Israel
Sentieri in utopia

Titolo di estrema attualità, “Pfade in Utopia”, quello dato da Martin Buber al libro scritto in tedesco a Gerusalemme nel 1950, subito tradotto in ebraico e da noi edito dalle olivettiane Edizioni di Comunità nel 1967 (riproposto da Marietti, a cura di Donatella Di Cesare, nel 2009). D’attualità non tanto perché tratta di rivoluzionari russofoni, di socialisti marxiani e di visionari anarchici – in vero, il tema è quello del rinnovamento della società attraverso l’ideale della comunità – quanto perché registra ed elabora la consapevolezza della crisi epocale post-conflitto mondiale e perché individua nel comunismo russo, verniciato di messianismo socialista e chiamato “con il maestoso nome di Mosca”, un polo antitetico a un altro modello, non meno socialista (allora) e non meno messianico (a suo modo), ossia il neonato stato di Israele, frutto del movimento sionista a cui Buber aderì dalla prima ora, polo che chiama semplicemente “Gerusalemme”. Tra i due, dice senza esitazioni, bisogna scegliere.
Per altri aspetti, invece, il libro ci appare assai datato, molto inattuale, specie là dove cerca di delegittimare il principio politico della sovranità nazionale – tesi sostenuta dalla Di Cesare – per sostituirlo con “la ferma volontà dei popoli di controllare e amministrare insieme il pianeta terra: territori, risorse di materie prime e abitanti”. Dunque non lo stato, né una federazione di stati, ma una comunità, meglio un sodalizio di comunità. Solo da questa volontà (sogno, utopia, illusione?) scaturirà una “pace vitale”. E tuttavia, per evitare che l’idea comunitaria si trasformi in ideologia, occorre secondo Buber che essa non evolva in dogma, struttura rigida o mera sentimentalità; occorre che resti aderente “alla situazione storica”, ai bisogni, alla comunanza spirituale, alla fatica cioè della costruzione quotidiana. Qui il pensiero concreto del filosofo dialogico corre all’esperienza di kibbutzim e moshavim, che all’inizio degli anni Cinquanta erano nell’immaginario comune, ebraico e non, il simbolo della rinascita del popolo ebraico in eretz Israel, comunità di lavoro e di vita, dentro la società, ispirate ai valori democratici e socialisti di libertà, uguaglianza, condivisione e solidarietà. Ancora una volta, nel suo piccolo Israele apriva un sentiero nuovo all’umanità, modellava un’alternativa a un ordine mondiale che si era rivelato catastrofico. Dove guardare in cerca di quei valori se non al piccolo esperimento socialista creato dagli ebrei nella terra dei loro padri?
La storia, sappiamo, è andata veloce: in Israele le differenze ideologiche hanno frantumato il movimento kibbutzistico (frantumazione che Buber qui descrive nel suo accadere); le guerre degli arabi vicini non hanno dato tregua; con gli aiuti americani è arrivato anche il ‘soft power’ a stelle-e-strisce (ossia il capitalismo); al contempo i modelli socialisti perdevano colpi e fascino a livello globale. Quel che Buber paventava come l’opposto dello spirito di comunità, ossia “le masse anonime di elettori”, è diventato un po’ ovunque in Occidente il ventre molle degli stati democratici. Non solo nazionalismi e rigidità dogmatiche non sono scomparsi automaticamente dall’orizzonte, ma sono anzi risorti dalle ceneri dell’apocalisse bellica irridendo sempre più agli irenismi, pur in buona fede, dei pensatori utopici alla Buber. Il quale sapeva di essere già stato superato dalla storia, che non ha rispetto del nostro wishful thinking. “Lo schizzo d’immagine che qui ho tracciato – scriveva alla fine dei sui “Sentieri in utopia” – sarà posto nell’archivio del ‘socialismo utopistico’, fino a quando la bufera non ne sfoglierà le pagine”. E nel mezzo di ogni nuova bufera (quella che stiamo vivendo è una delle tante, ahinoi) ci sforziamo di immaginare un post, un dopo, un domani diverso e alternativo, una ‘pace vitale’ concretamente solidale, una messianica ‘comunità di comunità’, che però non viene mai. “Un mondo ideale, un mondo capovolto” secondo l’azzeccatissimo titolo scelto da alcuni miei collaboratori per un convegno dedicato a ‘messianismi e utopie nel pensiero ebraico’, appena svoltosi all’università di Trento (faremo gli atti).
Il volume buberiano si conclude così: “Come non credo nell’incubazione marxiana della nuova forma [sociale], così non credo nella partenogenesi bakuniniana dal grembo della rivoluzione; ma credo nell’incontro di immagine e destrezza nell’ora plastica”. È una chiusa famosa, perché a distanza di tanti decenni nessuno riesce ancora a capirla. Bella ed enigmatica, lascia in sospeso non tanto l’atto di fede buberiana quanto la vera alternativa alla nuova società idealizzata da Marx e a quella preconizzata, esito della rivoluzione, da Bakunin. Personalmente, confesso che neppure il modello sociale senza sovranità statali, caro alla Di Cesare, mi convince; anzi, mi pare sempre più utopistico e lontano dalla realtà, cioè da quel realismo antropologico e geopolitico a cui ci costringono le bufere della storia. Forse “l’incontro di immagine e destrezza nell’ora plastica” è soltanto l’equivalente laico del tequ talmudico: verrà il Tishbita, Eliahu ha-navì, e risolverà i nodi irrisolti. Ma per ora siamo e restiamo nell’ora buia della bufera.

Massimo Giuliani, università di Trento

(17 marzo 2022)